Alessandro Ardigò – Cedere
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Sul grande mare dell’Essere vi sono infiniti porti per le navi che lo solcano. L’Io è una piccola barca in quell’immensità e cerca di attraversarla fra giornate cristalline, fortunali e improvvisi cedimenti. Sono situazioni in cui la «navicella» del Sé si inabissa nel grande mare, oppure veleggia nell’aria in un cielo di puro azzurro. Lo spegnersi dell’Io, il suo cedere appunto, può portare a momenti di libertà e di apertura così come ad episodi di chiusura e ripiegamento. «Cedere e altre cose dette d’amore» descrive una realtà rarefatta e allo stesso tempo violenta in cui ogni affetto o moto dell’anima può mutare in maniera repentina. Ecco allora il piacere, l’amore, gli elementi della natura, ma anche la visione, il coma, la morte che galleggiano come pezzi di complessità su questo grande mare che ci è dato di vivere.
Esaurito
Valentino Valitutti –
Cedere alle emozioni, al momento, al presente…cedere alle tentazioni, al rimpianto, al passato…cedere al ricordo, alla storia…cedere per cadere e poi rialzarsi, cedere per accettare la realtà ed accettarsi, cedere per tornare indietro e poi andare avanti. Tutto questo è il mondo racchiuso nell’opera poetica ‘Cedere e altre cose dette d’amore’ di Alessandro Ardigò, uno sguardo al passato personale che è anche passato di tutti noi, una riflessione sul qui ed ora, una luce sul futuro. Un libro consigliato per tutti, una lettura per scoprire e riscoprirsi.
Marco Pinti –
Quando me lo sono ritrovato tra le mani, la prima cosa che mi sono chiesto è stata se fosse un cognome da poeta: Ardigò. Al secolo Alessandro Ardigò, autore di “Cedere. E altre cose dette d’amore”, Eretica Edizioni.
Va detto che, per essere un poeta, si lascia maltrattare. Non solo da una certa signorina che tiranneggia una buona metà delle pagine del libro, ma anche dal maledettissimo anonimo lettore, cioè io, lanciato come un segugio, pagina dopo pagina, all’inseguimento della preda ferita. Dico maltrattare perché le poesie sono creaturine delicate. Delicate e luminose. Ognuna è come una lucciola, o meglio, per evitare equivoci sulla signorina di cui sopra, diciamo “firefly”, all’inglese. Un insetto di fuoco, ma di un fuoco fatuo. Fragile. Prendersene cura, conservarla dall’attrito col quotidiano, dovrebbe essere un onere a carico del lettore. Le poesie andrebbero degustate a mezzanotte, con una luce fioca in tinello e un bicchierino di grappa. L’aggiunta di un camino è opzionale, ma non guasta. Insomma, bisognerebbe dedicare a ognuna un tempo e un genere di attenzione che siano rispettosi del tempo e dell’attenzione che sono state necessarie per generarle. Quindi, vi prego, non fate, non fate, non fate come me. Non leggetele in metrò. Non fatele sobbalzare in una dozzina di fermate. Una dozzina non è poco, lo so, ma io quando vado a Milano parcheggio sempre ad Affori, anche se devo andare a Lambrate. Non importa, quando non sei a tuo agio al volante (e io non lo sono mai), la questione non è trovare un buco tra due utilitarie, te ne servono almeno tre. E ad Affori so dove trovarla, la mia pista di atterraggio. Per tornarci, la metro offre un ottimo servizio, peraltro allineato alla concezione del tempo lineare. Passato, presente, futuro. Tre cardini che Ardigò conosce bene e che si diverte a mescolare con la maestria del grande baro. Carta vince, carta perde: “Tra luci rotte / un amore lontano / Sola è la notte”, parole rubate al volo di un pipistrello. “E come un uomo dalla luna incantato/ seguitò il contrario del suo volere”: Quante volte, porca miseria, quante volte? – aggiungo io. Una dozzina, almeno. Non le volte, le fermate! Una dozzina di fermate, da Porta Romana alla periferia ovest. Una dozzina di fermate con la netta sensazione di non essere affatto solo nel pur desolato vagone notturno. Siamo in due, io e Ardigò. Anzi, siamo tre, o forse trentatré? Dipende se consideriamo la signorina di cui sopra come un’unica coltellata oppure se preferiamo replicarla nei volti dei togati intorno a Cesare. In ogni caso si soffre, e si sanguina. Ma quante volte? Quante volte? – aggiungo io. Non importa, non c’è scampo. Una è già di troppo.
E allora ci si difende, con quel poco di razionalità che ci resta, come nel frammento ventiquattro: “Fai bene a fare ciò che fai. Paghi chi ti ama il disvalore che hai sentito chiuso allo stomaco da un padre assente. Te lo confermo io che t’amo. Un folle dolore è amare l’assenza.” In tre righe c’è chi può risparmiarsi un anno di psicanalisi.
Ma allora perché, Ardigò? Perché “Cedere”?
Frammento numero sedici: “Lei scosta con le mani / una natica e l’altra. / Si volta con un ghigno / mi fissa lenta, ladra.”
Ladra. Ladra. Ladraaa! Vorrei gridarlo, nel vagone che sferraglia verso la stazione centrale, ma sale una vecchietta e mi trattengo ora che siamo in quattro, o forse in trentaquattro.
Quanto al frammento numero sedici, di cui sopra, va detto che c’è qualcosa di più dell’incipiente azione meccanica. Va detto, per esempio, quello che dice Pierpaolo nel suo incompiuto “Petrolio”. La riporto per come la ricordo, una riflessione sul bene e sul male. Se il male è il prendere, il possedere, il rapinare un qualcosa agli altri, allora il punto più lontano dal male è precisamente l’essere presi, posseduti, rapiti a sé stessi. Pierpaolo lo intendeva in modo un po’ troppo letterale e ben di più pericolosamente della nostra ladruncola, ma il risultato non cambia. Sia che tocchi ai nervi che reggono le ginocchia durante lo spasmo, sia che accada all’orgoglio di un uomo ferito, a cedere sono sempre i cardini della porta più stretta, quella attraverso cui, promettono le Scritture, si ac-cede al Paradiso. Paradiso, fermata Paradiso. Termine corsa del treno. Mi sa che ho perso la fermata di Affori, la vecchietta è scesa. Siamo tornati a essere in tre, anzi in due. E’ scesa anche la ladra, con il suo set di coltelli. Restiamo io e Ardigò. Ardigò, io non lo so.
Non lo so se il tuo è un cognome da poeta. Di certo, è il cognome di un poeta.