La Trilogia Di Giordano Criscuolo
di Francesco
Azzirri
Le Parole Che Non Scrivo
Una sera, dopo qualche giorno che il volume di Criscuolo capeggiava al margine del mio comodino, a mo’ di condimento tra “Deliri, desideri e distorsioni” di Lester Bangs e “Infernalia” di Clive Barker, ho preso in mano questa trilogia da me acquistata on line, per curiosità, dato che dello stesso autore avevo molto apprezzato Il Meraviglioso Vinile Di Penny Lane e mi sono letto Le Parole Che Non Scrivo. È durato dalle ventidue all’una e mezza circa. Mi è successa una cosa singolare leggendolo, cosa che ovviamente mi è accaduta anche con altre letture, ma mai con tale frequenza: sdoppiavo le situazioni narrate dall’autore con le mie. Occupazioni ed autogestioni, cazzeggi e situazioni giornaliere, locali, canne e vodka in camera con amici, amori mitizzati, la sala prove e l’esame sul Foscolo che detti pure io, coi libri nel tavolo del salotto quando ancora vivevo coi miei. E le colonne sonore erano le stesse. Dal ‘96 al 2004. È stata una lettura coinvolgente, divertente, cruda e forse, se mai un giorno vedrò il paese di origine di Criscuolo, Buccino (o almeno io mi sono immaginato che il paesello fosse quello), ci vedrò anche un po’ Prato o mi sentirò un po’ Manuel, il protagonista. Mi sono piaciuti gli inframezzi epistolari; le paranoie di questo rockeroe sono rese benissimo, specie quelle in macchina con Annalisa.
E mi è piaciuta la fine amara ma non arresa, in bilico tra lo sputo ed il pianto.
Come Su Un Solco Di Morrison Hotel
La sera successiva la trilogia non faceva più da condimento tra i libri di Bangs e Barker. Era una fetta, la fetta che sta in cima, nell’aria viziata e mi ha rammentato di togliere dal comodino i libri già letti. Come Su Un Solco Di Morrison Hotel, il secondo atto di questa trilogia, narra una storia che sembra sfuggirti tra le dita riga dopo riga. La narrazione, tra blog e carteggio, la rende come filtrata e attutita, eppure dagli sviluppi ancora in essere e in evoluzione. Parte in sordina per poi, con l’improvviso allontanamento di Alice e coi suoi comportamenti che non rispecchiano la ragazza raccontata da Cristiano, portare il lettore ad avere furia di capire cosa diavolo stia combinando. Solo un colpo di testa? Un innamoramento fulmineo? Invece c’è dell’altro. C’è la vita di una persona in bilico che ha compreso forse di non poter mai vivere al di là di un violino e di certe corazze. Di borchie dal sapore dark. Il procedere incredulo e allucinato del protagonista rende le atmosfere rarefatte eppur cariche di umanità e di vita. Molto bello il finale in cui lui tossisce nervoso come quella prima volta alla panchina. La nascita di un nuova vita, seppur evento positivo, non riesce ad allontanare la malinconia per il tempo che passa con le sue sferzate veloci, l’inevitabile fine di certe situazioni e sensazioni che non ritorneranno mai.
È un’opera meno “schizzata” di Le Parole Che Non Scrivo, dove personaggi, ricordi, e giornate si rincorrono con la tipica furia adolescenziale e post adolescenziale. Qua non si corre già più. Nonostante il lieto fine mi ha lasciato un po’ di amarezza, cosa che il primo romanzo della trilogia non aveva fatto. Forse perché ci si avvicina all’età adulta dove certi mondi, appunto, non si ricreano più. Ce ne saranno di altri certo, nel nostro sentire attuale anche migliori; ripetersi è morire, lo sappiamo, ma di fatto questo romanzo narra di un passaggio, di un tornante lungo, di una curva.
E nulla.
Il vecchio mondo dallo specchietto retrovisore non si vede più.
1000 Anni Con Elide
No, non l’ho letto di sera, in camera, nell’aria viziata. E ho chiuso anche con i panini di carta; era pomeriggio e, prendendo in mano il libro di Criscuolo per portarlo in soggiorno, ho colto l’occasione per rimettere tra gli scaffali i libri di Bangs e di Barker.
Se Le Parole Che Non Scrivo mi aveva fatto ricordare e rivivere certe giornate di anni e anni fa e Come Su Un Solco Di Morrison Hotel mi aveva lasciato una “sospensione”, una certa malinconia 1000 Anni Con Elide mi ha emozionato. E mi ha emozionato perché i protagonisti sono emozionanti; colti, ironici, pungenti. Sono commedia. Stefano è una splendida maschera, ma di quelle genuine. Non puoi non volergli bene a Stefano. Ma non sono da meno Stregatto con le sue citazioni e divagazioni colte nei fumi obliosi - tra il serio, l’arroganza e la sbronza nasce spesso la verità del genio – (Azzirri). Giostrammer… beh, è il catalizzatore perfetto. E non da meno le controparti femminili. I dialoghi e le citazioni, come nei discorsi alle feste del periodo universitario, geniali. L’autore, in una di queste riuscitissime divagazioni dei suoi eroi, ha ripescato “La fontana malata” del buon Palazzeschi (in quel momento ho stretto la mia mano a quella immaginaria di Criscuolo) e diverse altre stupende frasi che ERANO lì, nel momento, perfette. Ripeto, i dialoghi e i pensieri diretti in questo romanzo sono notevoli. Non ho trovato un momento morto di uno e, il finale, pur avendo un velo malinconico di certe cose che finiscono, di nuovi inizi, non è affatto passivo o tendente al negativo, ma deciso dai protagonisti in gioco, dalle loro vite, dall’intuito di chi sa qual è il suo posto attuale nel mondo. La struttura è singolare con intrusioni da metaromanzo; mai affettate queste. Sono veloci, fugaci. Sono come cambiare il lato ad una cassetta. È, tra i romanzi di questo scrittore, quello che ho letto in meno tempo e che mi ha letteralmente stregato. Pochi ambienti ma infiniti; c’è ampiezza nei luoghi, una profondità che dilata continuamente la percezione delle situazioni che sfilano durante la lettura. E il paesello di Manuel in finale è una ripresa che si apprezza con un bel sorriso, se si è letto il primo libro. Ho voluto bene a questi personaggi ecco. Gli altri mi erano stati simpatici, mi ci ero immedesimato, avevo trovato empatia, ma qui Criscuolo ha fatto un gran lavoro sulla loro psicologia e sul relativo approccio alle cose e alle persone del mondo. Una storia che corre veloce veloce, eppure così dannatamente densa, su dei binari mai scontati, mai completamente definiti.
Lo metto alla pari con Il Meraviglioso Vinile di Penny Lane, anche se tono, genere e approccio sono diversi e non proprio comparabili. Ma se ne dovessi scegliere uno tra i quattro che ho letto, per far capire il tipo di scrittore che si ha di fronte, sceglierei questo.
Perché nel leggerlo io mi sono fottutamente divertito.
Questo libro meriterebbe (assieme a quella della trilogia che ci sta alla grande, vista anche la costante Amore - Chitarre) un’edizione in solitaria. Perché ha delle vette che gli altri due volumi della trilogia, se pur belli, non hanno.
Ne avrei letto volentieri un altro bel po’ “di questo suo libro di questo suo libro”.
(Stefano docet).
Ps: Cazzate. Coi panini non ho chiuso. Altri attendono quel mio comodino.
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